Nel mondo di “Flow” la natura si sta riprendendo il suo posto e della civiltà umana rimangono tracce fantasmatiche e indecifrabili, finanche colossali a giudicare dai ruderi. Il felino nero è il punto di vista privilegiato della camera di Zilbalodis, posizionandosi alla sua altezza e permettendo alle immagini di farsi avvolgenti e soverchianti quanto lo sono i resti silenziosi delle civiltà svanite.
All’inizio della storia Zilbalodis segue il micio con una camera a mano destabilizzata, simil videoludica2, restituendo fin dal subito l’idea di un approccio realistico all’immagine, quanto vogliono esserlo i comportamenti e le interazioni tra gli animali. Anche quando il gatto si troverà alla deriva su una barca a collaborare con un capibara, un lemure, un cane e un uccello, il regista simulerà costantemente l’idea di essere lì in veste di osservatore, facendo in modo di sospendere il giudizio sul rapporto conflittuale o collaborativo tra gli animali.
“Flow”, pur figurando anche come testo ecologista, pone al centro del discorso il legame metaforico tra protagonista e natura: in un mondo ingoiato dai flutti, la crescita del gatto comincia dalla perdita dei suoi spazi, portandolo ad una sfida costante con l’acqua con cui più volte dovrà interagire. L’elemento liquido diventa la rappresentazione naturale del suo rapporto con lo strano gruppo con cui collabora per necessità: l’inesorabile sommersione dell’incipit, in cui tante sculture di gatto (persino una colossale), saranno “affogate”, è il prodromo di questa avventura di sopravvivenza. Si passerà poi alla cauta fascinazione fino alla totale serenità dell’immersione, quando appunto i rapporti col gruppo avranno raggiunto un ottimo livello di collaborazione, per concludersi con le ondose e oscure acque dell’atto finale.